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Hernàn Cortès, condottiero spagnolo, nel quindicesimo secolo le portò in Europa, e in Sicilia servirono inizialmente per dare una nota esotica alle residenze barocche di quei tempi. In seguito i Siciliani apprezzarono in svariati modi il frutto e non solo quello.
Giuseppe Pitrè, uno dei più illustri studiosi delle nostre tradizioni popolari, parla di una leggenda dove questa pianta era considerata velenosissima. Questo perché a portarla in Sicilia furono i turchi, di religione diversa dalla nostra, e pertanto si credeva che l'avessero portata per distruggere la razza dei cristiani.
Gaetano Basile, scrittore e studioso dei nostri giorni, a tal proposito dice che: "....ci fu un intervento diretto del Padreterno che per noi isolani para abbia sempre avuto un occhio di riguardo. Grazie al Suo divino interessamento, i frutti spinosi di quella pianta diventarono buoni da mangiare ed anche benefici..."
Infatti, oltre al gustosissimo frutto, di questa pianta si apprezzano anche i fiori, che essiccati vengono impiegati nel decotto "ri ciuri i ficurinnia". Per non parlare delle stesse pale di fichi d'india che in tempi di scarso foraggio servono per nutrie ovini e bovini. Un vecchio proverbio recita: "Jinchi la panza e jinchilia ri spini" (riempi la pancia e riempila di spine) forse a giustificare il fatto che dalle bucce del frutto, i nostri avi, ricavavano una specie di frittella in pastella.
Fra i tanti impieghi del fico d'india troviamo anche questa mostarda, 'u masticutti appunto, che generalmente viene preparato utilizzando anche delle apposite formelle di terracotta che ne danno la caratteristica forma.